Diffamazione e Social Network

Con la sentenza n. 8328 del 1 marzo 2016 la Corte di Cassazione sez. V penale torna ad affrontare il tema della rilevanza penale dei contenuti di carattere diffamatorio su Internet ed in particolare sui social network ribadendo le proprie posizioni precedenti piuttosto severe.

Il caso di specie riguarda un commissario straordinario della Croce Rossa Italiana la cui reputazione viene offesa più volte sulle pagine del social network Facebook con messaggi eloquenti di diversi soggetti, tra cui l’imputato, nell’ambito di un dibattito fra utenti web.

La Suprema Corte ritiene che nel caso di specie si configuri senz’altro il reato di diffamazione anche nella sua ipotesi aggravata. In effetti la stessa Corte ha più volte evidenziato che il reato di diffamazione può essere commesso a mezzo di internet (cfr. Sez. 5, 17 novembre 2000, n. 4741; 4 aprile 2008 n. 16262; 16 luglio 2010 n. 35511 e, da ultimo, 28 ottobre 2011 n. 44126), sussistendo, in tal caso, l’ipotesi aggravata di cui al terzo comma della norma incriminatrice ( Cass., Sez. 5, n. 44980 del 16/10/2012), dovendosi presumere la ricorrenza del requisito della comunicazione con più persone, essendo il messaggio diffamatorio, per sua natura, destinato ad essere normalmente letto in tempi assai ravvicinati da un numero indeterminato di soggetti (Sez. 5, n. 16262 del 04/04/2008). 

In particolare, anche la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché la diffusione di un messaggio con le modalità consentite dall’utilizzo per questo di una bacheca facebook, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sia perché, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone (senza le quali la bacheca facebook non avrebbe senso), sia perché l’utilizzo di facebook integra una delle modalità attraverso le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione (Sez. 1, n. 24431 del 28/04/2015). 

Pertanto, la condotta di postare un commento sulla bacheca facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, di guisa che, se offensivo tale commento, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dall’art. 595 c.p.p., comma (Sez. 1, n. 24431 del 28/04/2015).

Per la Corte non assumono alcun rilievo le contestazioni del ricorrente relative all’effettiva riconducibilità dei messaggi incriminati alla propria persona. Difatti, sebbene il CTU abbia evidenziato nella propria relazione che le copie stampate di pagine internet, allegate alla querela sporta dalla parte offesa, non offrivano da sole garanzie certe, né sull’autenticità e integrità dei messaggi, né sulla loro data, né sulla loro provenienza da un eventuale sito effettivamente intestato all’ imputato per la violazione di elementari regole di computer forensic, la Corte riconosce che le indagini e gli accertamenti tecnici comunque  non escludono in modo definitivo e preclusivo, che quanto lamentato dalla parte offesa si sia in effetti verificato, né la possibilità che ciò sia comprovabile aliunde, atteso che risulta confermato dagli stessi accertamenti tecnici, che un account a nome dell’imputato, era stato in effetti operativo in rete, durante il periodo segnalato, per essere disattivato soltanto in seguito. 

Difatti, l’imputato sebbene informato dell’esistenza dei predetti messaggi a contenuto illecito, immessi sul sito web intestato a suo nome, nell’ambito dell’inchiesta disciplinare avviata nei suoi confronti, non ha mai denunciato o segnalato abusi da parte di eventuali ignoti, responsabili di aver usato, senza il suo consenso, le sue generalità come semplice nickname, allo scopo di celare la propria, vera identità, ed inoltre nella memoria a sua firma, depositata sempre nell’ambito del procedimento disciplinare, questi non ha mai negato la paternità di quelle frasi, né il fatto che queste fossero state da lui immesse in rete, sull’account intestato a suo nome.

La decisione in argomento, quindi, ribadisce un concetto fondamentale e cioè che il web 2.0 non può e non deve essere considerato una “zona franca” del diritto, bensì come uno degli ambiti nei quali l’individuo svolge la sua personalità e necessita di una disciplina idonea ad attuare le tutele previste dall’ordinamento.

diffamazione-social-networkL’onore consiste nel sentimento che il soggetto ha di sé e del proprio valore; la reputazione, invece, nel sentimento che di tale soggetto ha la collettività. 

L’onore, tutelato dalla fattispecie dell’ingiuria (ora depenalizzata), può essere leso, pertanto, solo in caso di offese rese in presenza del destinatario; la reputazione, tutelata dalla fattispecie della diffamazione, solo in caso di offese fatte in presenza di altri.

Stante il divieto di analogia in materia penale, non sembra possibile assimilare le comunicazioni via internet a quelle telefoniche, mentre appare opportuno avvalersi di un’interpretazione estensiva di quanto previsto dall’art. 595 c.p., riferibile anche ai contenuti diffusi via internet.

Quanto al requisito richiesto dalla norma, secondo cui gli atti lesivi devono essere diretti alla persona offesa, non si hanno dubbi che ciò accada allorché il messaggio sia veicolato da posta elettronica all’indirizzo del destinatario. Più problematica risulta l’ipotesi in cui l’offesa sia veicolata attraverso un mezzo che raggiunge più persone contemporaneamente (newsgroup, mailing list, siti web). In questi casi, si ritiene non si integri il delitto di ingiuria, bensì quello di diffamazione aggravata. 

L’ampia casistica in materia di condotte diffamatorie presenta un intimo legame con l’attività giornalistica e la libertà di informazione, tale che l’evoluzione della giurisprudenza ne risulta fortemente influenzata. Si registra che un vastissimo numero di pronunce sia diretto all’accertamento della possibilità di invocare le scriminanti del diritto di cronaca e del diritto di critica nell’ambito della professione giornalistica.

Ma si pensi alle opinioni espresse attraverso siti internet, newsgroup e blog, che non necessariamente costituiscono mezzi di informazione giornalistica e per le quali non sono invocabili i diritti di cronaca o di critica.

Per molti, però, il diritto di critica non sarebbe una mera specificazione del diritto di cronaca e come tale non sarebbe invocabile esclusivamente da chi esercita l’attività giornalistica. 

Il diritto di critica ha un carattere autonomo e può essere esercitato da chiunque, nel rispetto dei confini stabiliti dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia di diritto di cronaca: a) utilità sociale dell’informazione; b) verità; c) forma civile dell’esposizione dei fatti.

Risoluzione del contratto di leasing e restituzione dei canoni versati

Sul punto “restituzioni contrattuali” in materia di contratti di locazione finanziaria c.d. “traslativi” e non di “godimento”, l’ordinamento non prevede una disciplina specifica, ma applica in via analogica quella prevista dal codice per la vendita con riserva di proprietà.

L’articolo 1526 cod. civ., infatti, disciplina gli effetti restitutori conseguenti alla risoluzione per inadempimento di un contratto di vendita con riserva della proprietà. L’articolo in questione precisa che il venditore, che ha diritto a vedersi restituita la cosa, a sua volta è tenuto a restituire le rate riscosse “salvo il diritto a un equo compenso per l’uso della cosa”, che altro non è se non la restituzione del valore di godimento del bene stesso.

A questo ultimo proposito, occorre osservare che dottrina e giurisprudenza (che si sono occupati di questa disposizione quasi con esclusivo riferimento all’applicazione analogica che viene fornita rispetto a contratti di cosiddetto leasing traslativo) hanno approfondito solo occasionalmente il profilo dei parametri da utilizzare per tradurre in moneta l’equo compenso.

Secondo alcuni interpreti, il riferimento all’equità si presta ad essere letto come un rinvio ai canoni del mercato: il compenso andrebbe, pertanto, ragguagliato al prezzo per il noleggio di un bene similare.

Secondo un diverso e maggioritario indirizzo, al contrario, l’equo compenso non è qualcosa di avulso dal contratto e non va cercato al di fuori di questo: i conteggi effettuati sulla base dei parametri di contratto, dovrebbero essere quindi i soli a poter essere definiti “neutri”, essendo gli unici che si pongono in linea con l’accordo concluso dalle parti.

In caso di inadempimento, dunque, leggere e modulare le restituzioni (così come il risarcimento) in base all’assetto di interessi programmato dalle parti parebbe essere l’unica via che offre tutela al vincolo negoziale assicurando la salvaguardia dell’equilibrio economico del contratto.

Peraltro, il fatto che il rimedio ex articolo 1453 cod. civ. determini una trasformazione del rapporto finalizzata a dare attuazione ai valori di scambio programmati è stato ritenuto pressoché pacifico quando la risoluzione ha a che fare con contratti rimasti del tutto inadempiuti: giurisprudenza e dottrina affermano che il contraente ha diritto al risarcimento degli interessi contrattuali positivi, e cioè a conseguire quello stesso incremento patrimoniale netto che avrebbe ottenuto se il contratto fosse stato regolarmente adempiuto.

Seguendo questa linea di pensiero quando si ha a che fare con contratti cui una o più prestazioni sono state in tutto o in parte eseguite non è ragionevole ipotizzare una alterazione della funzione del rimedio risolutorio: permane quello di attuare la forza di legge del contratto.

Si dovrà procedere ad una verifica della parziale o completa realizzazione del programma negoziale (cui consegue la nascita di un’obbligazione restitutoria di natura contrattuale) che va effettuato alla stregua dei valori indicati dalle parti.

A questo proposito, come già anticipato più sopra e come qui sotto verrà confermato dall’orientamento pressoché univoco della Corte di Cassazione, viene in aiuto l’applicazione dei contenuti dell’art. 1526 cod. civ. in materia di vendita con riserva della proprietà in via analogica ai contratti di locazione finanziaria di tipo traslativo.

Infatti, nel caso di un contratto di vendita con riserva della proprietà rimasto inadempiuto da parte dell’acquirente, il venditore ha diritto a rientrare nel possesso della cosa venduta, ma solo a patto che provveda alla restituzione della parte di prezzo già (eventualmente) incamerata. Ovviamente il venditore potrà trattenere una somma dalla parte di prezzo da restituire pari ad un ipotetico canone di utilizzo del bene per il periodo in cui il compratore ne ha avuto disposizione.

A tal proposito ed a sostegno della teoria che a seguito della risoluzione dei contratti di leasing (traslativo immobiliare) e della riconsegna degli immobili il venditore avrebbe dovuto contemporaneamente restituire i canoni percepiti sino al momento della risoluzione si riporta la massima derivata dalla pronuncia n. 2538/16 della sezione I della Suprema Corte.

L’introduzione nell’ordinamento, tramite l’art. 59 d. lg. n. 5 del 2006, dell’art. 72 quater l. fall. non consente di ritenere sorpassata la tradizionale distinzione tra leasing finanziario e traslativo, e le differenti conseguenze (nella specie, l’applicazione in via analogica dell’art. 1526 cod. civ. al leasing) che da essa ne derivano nell’ipotesi di risoluzione del contratto per inadempimento dell’utilizzatore. Deriva da quanto precede, pertanto, che nel caso di risoluzione, anteriore al fallimento, del leasing, il concedente deve proporre la domanda di ammissione al passivo completa di tutte le sue richieste nascenti dall’applicazione dell’art. 1526 cod. civ.: la restituzione di tutti i canoni all’utilizzatore e del bene alla società di leasing, con la possibilità di pretendere a titolo di risarcimento ex art. 1453, co. 1, cod. civ., la differenza tra l’intero corrispettivo contrattuale a carico dell’utilizzatore e il valore del bene, secondo i prezzi correnti al tempo della liquidazione.

Nella stessa direzione la pronuncia n. 19732/2011 della sezione III della Cassazione e le più recenti sentenze di merito (si segnala tra le altre la n. 1075/2015 del Tribunale di Trento).

Sovente la lettera dei contratti sottoscritti tra le parti prevede l’esclusione da parte dell’utilizzatore della possibilità di rientrare nel possesso di quanto versato (seppur decurtato di quello che l’art. 1526 cod. civ. chiama “equo compenso”) a fronte della restituzione al venditore degli immobili oggetto dei contratti di leasing risolti.

La legge però viene in soccorso della parte che, persa la detenzione del bene (restituito a fronte della risoluzione del contratto), vedrebbe frustrate le pretese di vedersi restituire (almeno parzialmente) quanto versato prima della risoluzione del contratto. L’art. 1384 cod. civ. prevede, infatti, che a fronte di una manifesta eccessività dell’importo della clausola penale, il Giudice possa decidere di ridurla ad un importo c.d. “equo”.

Sul tema, la giurisprudenza si divide, anche se sembra percorribile la strada che porta ad una pronuncia di nullità della clausola per come formulata nei contratti sottoscritti; nullità che, comunque deve necessariamente essere valutata caso per caso.

Infatti l’ABF, chiamato a pronunciarsi sulla validità della clausola risolutiva espressa di un contratto di leasing, con decisione del 5 dicembre 2014, n. 8227 ribadisce l’importante orientamento già espresso, con riferimento a clausole standard del medesimo tenore, nella decisione n. 6492 del 12 dicembre 2013.

La clausola in questione prevedeva, in caso di risoluzione per inadempimento del cliente, una penale pari “al restante corrispettivo contrattuale complessivamente pattuito a carico dell’Utilizzatore per tutta la durata del contratto, maggiorato del prezzo previsto per l’opzione, attualizzato a un tasso pari all’indice di riferimento di cui alla clausola n. 4 delle Condizioni Particolari del presente contratto diminuito di 1 punto percentuale, e detratto quanto sarà ricavato dalla Concedente con il realizzo dell’immobile, ovvero per indennizzi assicurativi o di terzi al netto di spese, imposte, tasse e tributi, ivi comprese tutte le spese per il ripristino dell’immobile ed il suo realizzo”.

Il Collegio ha ritenuto tale clausola affetta da nullità. E ciò in quanto la stessa è contraria alla norma imperativa di cui all’art. 1526 cod. civ., di carattere inderogabile (sul punto cfr., da ultimo, Cassazione 12 settembre 2014, n. 19272). In effetti, è ormai principio acquisito che “al leasing traslativo si applica la disciplina di carattere inderogabile di cui all’art. 1526 c.c. in tema di vendita con riserva della proprietà, la quale comporta, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore la restituzione dei canoni già corrisposti e il riconoscimento di un equo compenso in ragione dell’utilizzo dei beni, tale da remunerare il solo godimento e non ricomprendere anche la quota destinata al trasferimento finale di essi” (cfr. anche Cass. 28 gennaio 2015, n. 1625; Cass., 27 settembre 2011, n. 19732; Cass. 10 settembre 2010, n. 19287; Cass. 8 gennaio 2010, n. 73)”.

Come correttamente affermato dall’Arbitro, pertanto, laddove il concedente cumulasse – secondo quanto previsto da clausole analoghe a quella in questione – il residuo valore del bene con l’importo dei canoni già corrisposti, “egli conseguirebbe … un arricchimento senza causa, il quale è generalmente vietato dall’ordinamento giuridico” (Cass., 27 settembre 2011, n. 19732)”.

Sul punto si è espressa, di recente, la Cass. 17 gennaio 2014, n. 888: “le clausole contrattuali che attribuiscono alla società concedente il diritto di recuperare, nel caso di inadempimento dell’utilizzatore, l’intero importo del finanziamento ed in più la proprietà ed il possesso dell’immobile, attribuiscono alla società stessa vantaggi maggiori di quelli che essa aveva diritto di attendersi dalla regolare esecuzione del contratto, venendo a configurare gli estremi della penale manifestamente eccessiva”.

Tale orientamento, sia del legislatore che dell’interprete, rendono l’eventuale richiesta di restituzione dei canoni versati (nei limiti suddetti) passibile di accoglimento da parte degli organi preposti.